Categories: Chiamata all'impegno

Pia pratica “Primi 5 sabati del mese”

Accogliamo l’invito della Santissima Madre!

Suor Lucia, nel suo libro “Memorie”, racconta che il 10 dicembre 1925 ha una apparizione: ” Mi apparve la Vergine Santissima e al suo fianco un Bambino, la Madonna gli teneva la mano sulla spalla e, contemporaneamente, nell’altra mano reggeva un cuore circondato di spine. In quel momento il Bambino disse:

” Abbi compassione del Cuore Immacolato della tua Santissima Madre, che sta coperto di spine che gli uomini ingrati in tutti i momenti Vi infiggono, senza che ci sia chi faccia un atto di riparazione per strapparle“. 

e subito la Vergine santissima aggiunse:

Guarda, figlia mia, il Mio Cuore coronato di spine che gli uomini ingrati a ogni momento Mi conficcano, e dì che tutti quelli che per cinque mesi, nel primo sabato, si confesseranno ricevendo poi la santa Comunione, diranno un rosario, e Mi faranno 15 minuti compagnia meditando sui 15 misteri del rosario, coll’intenzione di darMi sollievo, Io prometto di assisterli, nell’ora della morte, con tutte le grazie necessarie alla salvezza di queste anime“.

SECONDO MESE

Vedi Santo Rosario – Cenacolo familiare

Meditazione sui misteri del dolore 

1° Mistero: l’agonia di Gesù nell’orto degli ulivi 


Entrato nella lotta, pregava più incessantemente; e il suo sudore diventò come gocce di sangue che cadevano a terra (Luca 22,44).

L’agonia di Gesù nel Getzemani fu il momento più drammatico della Passione. 

Da cosa lo deduciamo? Dopo l’arresto, durante i maltrattamenti, le torture, la flagellazione, le tre ore in croce Gesù, pur soffrendo terribilmente, mantenne una pace sovrana.

Accettò in silenzio ogni forma di oltraggio, dialogò, se pur faticosamente, con Ponzio Pilato, con le pie donne mentre saliva al Calvario, parlò con l’apostolo e la Madre mentre era sospeso sulla croce. Nel Getzemani invece Gesù fu invaso interiormente da un’angoscia gravissima, lo dice chiaramente il testo del Vangelo:

«Gesù cominciò a sentire paura e angoscia» (Mc 14,33).

Aveva chiesto a tre dei suoi Apostoli più cari di rimanere vicino a Lui per fargli compagnia, per infondergli coraggio con la loro presenza e il loro amore: aveva come bisogno quello di essere sostenuto. Perché tutta questa angoscia, quando nessuno ancora lo minaccia o lo percuote? Non vi sono le frustate, nel Getzemani, nessuno lo oltraggia, gli fa violenza, lo offende.. Eppure è proprio in quel momento che

Egli soffre in una maniera inimmaginabile.

Fu il peso dei peccati degli uomini a schiacciarlo, fu il suo sentirsi solidale e responsabile di tutti gli uomini di tutti i tempi a farlo soffrire, e il carico fu tale che gli scoppiarono i capillari delle vene nel corpo. Poi si riprese, si rialzò, e andò incontro alle torture con pace, con forza, come agnello mansueto in mano ai tosatori. Nulla più poteva turbarlo, perché aveva vinto Satana sul terreno nel quale lo spirito del male lo aveva sfidato: come infatti il demonio aveva disobbedito e indotto Adamo ed Eva alla disobbedienza, così il Cristo, il nostro Signore, aveva obbedito e accolto pienamente il suo ruolo di riparatore dei peccati.

Se Gesù aveva chiesto ai tre Apostoli di partecipare con Lui a quel momento, semplicemente stando svegli e pregando, significa che anche noi possiamo aiutare, generazione dopo generazione, il Cristo e la Chiesa nella missione di riparazione dei peccati, semplicemente stando svegli e pregando. La sofferenza non è nostra, bensì del Signore Gesù – e per questo noi  Lo adoriamo sbigottiti -, ma Dio rende possibile il nostro contributo attraverso la nostra preghiera, la nostra penitenza, contribuendo così alla missione del Verbo e della Chiesa: la salvezza delle anime.

Entriamo nel nostro piccolo Getzemani, dunque, e stiamo svegli, consapevoli che il Signore ha bisogno in qualche modo anche di noi, come chiese la Vergine di Fatima ai tre bambini: «Volete accogliere le sofferenze che Dio vorrà mandarvi per la remissione dei peccati e la conversione dei poveri peccatori?».

2° Mistero: la flagellazione di Gesù 

Allora Pilato fece prendere Gesù e lo fece flagellare (Giovanni 19,1).

«Dalle sue piaghe siete stati guariti», grida san Pietro nella sua prima Lettera (1 Pt 2,25). Egli riprende pari pari un versetto del profeta Isaia (Is 53,5) e lo applica a Gesù, il suo Signore e Salvatore. Dunque, non c’è altra guarigione che non venga dalle piaghe del Signore. Se siamo malati, se siamo nelle tenebre del peccato, se siamo preda delle passioni, se siamo malati nel corpo e nello spirito, dobbiamo saperlo: non v’è altra guarigione se non quella che viene dalle piaghe del Cristo.

Ma quale relazione vi può essere tra le ferite inferte in modo crudele sul corpo santissimo di Signore 2.000 anni fa e la nostra guarigione spirituale? Vi è un legame misterioso, ma reale. Il nostro corpo, che dovrebbe essere «tempio dello Spirito Santo», lo usiamo sovente per compiere peccati, e così lo profaniamo, lo facciamo diventare strumento del male. È vero che è quello che esce dal cuore dell’uomo che rende impuri, come ha detto il Signore, ma poi ogni peccato concepito nella mente viene compiuto attraverso la nostra corporeità, fosse anche solo un peccato di pensiero. Non c’è dubbio: il nostro corpo deve guarire, deve prima o poi tornare a essere puro e a essere tempio dello Spirito Santo, perché Dio vuole tutti salvi e vuole portarci con Sé nella vita eterna con l’anima e con il corpo. Un corpo corrotto e infetto non può entrare in Cielo.

Quale la guarigione, dunque, e dove si trova il medico?

Il medico è l’Agnello immolato, Gesù che compie il sacrificio; e la guarigione si realizza e manifesta proprio nel fatto che Gesù ha un corpo fisico, sul quale si scatena il male del mondo. «Per questo, entrando nel mondo, Cristo dice: “Tu non hai voluto né sacrificio, né offerta, un corpo invece mi hai preparato […]. Allora ho detto: “Ecco io vengo per fare, o Dio, la tua volontà”» (Eb 10,5-7). Gesù riceve i colpi e il suo santissimo corpo si copre di ferite dolorosissime, ma Egli continua ad amarmi; anzi, proprio amando il Padre nel momento del dolore, ripara i miei peccati. Ora occorre il mio pentimento e l’accoglienza per fede della sua riparazione di amore. Dalle sue piaghe siamo stati guariti. Non dimentichiamolo mai. Contemplando il mistero della flagellazione noi ci umiliamo profondamente, e adoriamo il nostro Dio che per noi ha subito questa tremenda prova, durante la quale – ci narrano le cronache della storia romana – non tutti i suppliziati riuscivano a sopravvivere; si poteva infatti anche morire sotto i colpi, tanto erano devastanti.

Gesù non muore ancora sotto il flagello romano, ma compie il suo sacrificio per restaurare il corpo e annunciare quale sia il suo vero compito. Guarito grazie alle sue piaghe, il nostro corpo può tornare a essere, per sua grazia, tempio dello Spirito Santo. Fin da ora.

3° Mistero: La coronazione di spine

(I soldati) intrecciarono una corona di spine, gliela posero sul capo e gli misero una canna nella mano destra. Poi, inginocchiandosi davanti a lui, lo deridevano: «Salve, re dei Giudei!» (Matteo 27,29).

La coronazione di spine è uno sfregio gratuito, non previsto dalle punizioni normali che i soldati romani davano ai condannati. Avevano sentito dire che quest’uomo si era proclamato re e, come tale, in modo dispregiativo e irrisorio, lo vogliono “riconoscere”: gli mettono in testa una corona. Le spine entrano nella cute del capo, che sappiamo essere una delle zone più irrorate di sangue del corpo umano, e la sofferenza procurata è indicibile. Eppure il Signore tace, si lascia incoronare perché sa che la sua regalità non è il dominio sulle cose del mondo, ma la perfezione dell’amore. In effetti Egli è re, e una corona gli spetta. Ma oltre che re è anche Agnello immolato, e per questo è mite: per vincere la durezza dei cuori e la superbia umana. Il re-agnello viene umiliato dai servitori, ma Egli, nel silenzio, offre anche per loro. La regalità del Cristo comporta questa sofferenza innocente, il pagare per tutti in prima persona, soffrendo nell’amore e amando nella sofferenza.

Secondo la tradizione cattolica, nel dolore della corona di spine contempliamo la totale riparazione dei peccati che si commettono per la superbia umana, quel veleno che Satana aveva instillato nel cuore dei progenitori, e che ora viene riscattato con l’umiliazione, accettata e offerta. Ma sulla testa di Gesù, quell’orribile ammasso di spine diventa corona gloriosa. E la vittoria dell’umiltà sulla superbia, dell’obbedienza sulla ribellione. Il nostro Re, dunque, insegna che regnare è servire, regnare è pagare in prima persona, regnare è amare.

Nelle sacre spine della corona di Gesù ogni nostro pensiero viene purificato; solo guardando Gesù incoronato di spine ogni nostro pensiero orgoglioso può essere abbattuto e distrutto, ogni sentimento di una nostra grandezza può essere annientato. Davanti a questa incoronazione, Satana, che pensava di poter dominare attraverso la superbia e la cupidigia degli uomini, è costretto a scappare, inorridito e sconfitto.

«Amatevi gli uni gli altri come io ho amato voi», aveva detto Gesù poche ore prima, nell’Ultima cena; e anche, dopo aver lavato i piedi degli Apostoli: «Voi mi chiamate Signore e Maestro e dite bene, perché lo sono. E se io che sono il Signore ho lavato i piedi a voi, anche voi fate altrettanto gli uni verso gli altri», Per dimostrare questa sua regalità, Gesù benedetto si lascia incoronare da mani inique per rendere glorioso ogni nostro pensiero e purificare i nostri cuori.  È l’umiliazione che ci rende umili.

4° Mistero: Gesù sale il calvario sotto il pesante legno della croce

Allora lo consegnò loro perché fosse crocifisso. Essi presero Gesù ed egli, portando la croce, si avviò verso il luogo detto del Cranio, in ebraico Gòlgota (Giovanni 19,16-17).

È un viaggio. Gesù parte dal tribunale, dove è stato condannato, e deve arrivare in cima alla collina dove è stabilito il luogo del supplizio. Il tragitto non è molto lungo, ma Gesù parte già sfinito; inoltre è circondato da una folla inferocita e urlante, e l’ultimo tratto è tremendamente in salita. Sarebbe stata già una pena compiere questo viaggio scortato dai soldati camminando a piedi, ma per quale motivo deve portare Lui lo strumento della sua tortura finale? Non s’è mai visto che un condannato a morte vada verso il luogo del martirio portando egli stesso lo strumento della condanna (la scimitarra, la garrota, la corda dell’impiccagione, etc.). Perché Gesù  deve portare la croce? Egli aveva detto, durante la sua predicazione:

«Chi vuole essere mio discepolo rinneghi sé stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua». Dunque quel “prendere la croce e camminare” doveva essere un modo di dire comune del tempo, altrimenti nessuno avrebbe capito. Significa che ciò per cui morirai, tu lo porti fin dall’inizio del cammino. Vuole dire che tutto quanto ti pesa (le prove della vita, le angosce che si incontrano, gli ostacoli di varia natura), alla fine diventa così pesante che tu ne muori.

Dice Gesù alla venerabile Josefa Menendez: «Durante la Passione altro non desideravo che glorificare il Padre e riparare tutte le offese di cui gli uomini lo colmano. Perciò m’inabissai in una profonda umiltà, sottomettendomi a tutto ciò che esigeva da me il suo volere e, infiammato di zelo per la sua gloria, e di amore per la sua volontà, accettai di soffrire con la più completa rassegnazione».

La parola rassegnazione non è affatto negativa, per il Signore. Significa piuttosto entrare nella volontà di Dio e amarla più di noi stessi. Rassegnazione significa amare con sopportazione e pazienza la vita, sapendo che al termine ogni croce vissuta con amore dà gloria a Dio perché ripara i peccati. E la vita stessa che ci porta al Calvario, per tutti noi la vita finirà li. Alla fine della vita, a san Massimiliano Kolbe fu chiesto di dare un nome alla croce che egli aveva portato ogni giorno, come buon discepolo, dietro al suo Signore: volle darle il nome di martirio, e scelse di accompagnare nove uomini che andavano a morire di fame racchiusi in uno scantinato, per trasformare l’evento della morte in preparazione alla vita eterna.

Si muore dunque come si vive, e il cristiano ha già fatto la sua scelta: egli vuole morire di amore e per amore, perché è Gesù che lo vuole in lui.

5° Mistero: la crocifissione e morte di Gesù

Uno dei soldati con una lancia gli colpì il fianco, e subito ne uscì sangue ed acqua (Giovanni 19,34)

Nei Vangeli di Marco e di Matteo è riportato il  grido di Gesù, con il quale egli morì: «E Gesù, emesso un alto grido, spirò» (Mt 27,50). Dunque, il Signore non morì con un sospiro o una frase mormorata, bensì con un «alto grido». Certamente fu una cosa impressionante. Oltretutto era diventato buio, nonostante fosse primo pomeriggio. Il contesto finale quindi fu sommamente drammatico: quando ormai non si riusciva più a distinguere la figura del crocifisso, nella semioscurità, all’improvviso un grido angosciante squarciò l’aria. Fu quella l’ultima parola di Gesù, una parola “non-parola”. Il grido è l’espressione di uno stato d’animo di uno che ha esaurito tutte le altre modalità: si grida quando si ha molta gioia, o molta paura, o molta sofferenza. Il grido non è mai espressione di qualcosa di normale.

E così fu quest’ultima “parola” del Verbo di Dio: quando ormai tutto è stato detto, quando il dolore ha superato la soglia della sopportabilità, il grido di Cristo manifesta l’eccedenza della sofferenza, che non può essere espressa in altro modo. Gesù ha amato, ha obbedito, ha vinto, ora muore lasciando sulla terra il suo terribile grido, che nessuno prima aveva mai sentito: il grido di un Dio!

Dopo, fu immediatamente silenzio. Tutto era compiuto, la missione del Cristo sulla terra era terminata: occorreva solo attendere con fede il mattino di Pasqua e la gloriosa resurrezione. Ma quel grido, consegnato alla terra, non è terminato: ancora risuona laddove l’eccedenza del dolore non permette altre parole. Dove vi è uno che soffre, dove si piange per un’ingiustizia, dove si geme per un amore offeso, dove si langue per la solitudine, li vi è il grido di Cristo, che ancora supplica il Padre affinché il perdono venga concesso e il dolore venga consolato.

Contemplare questo Mistero significa, mentre si prega, fare risuonare nel profondo del nostro cuore questo grido di Gesù, andare con il pensiero sotto la croce, nel buio della creazione, insieme a Maria, Giovanni e la Maddalena, le cui orecchie si riempirono di quel grido. Il Vangelo dice che il velo del tempio si squarciò immediatamente, e si può credere che quello fu anche il momento in cui il Cuore di Maria fu trafitto definitivamente dalla spada predetta dal vecchio Simeone.  Proprio li, proprio con quel solenne e potente ultimo grido del Figlio crocifisso per amore degli uomini.

Pregare il Rosario sotto la croce è vivere l’esperienza del cuore trafitto. Non occorrono parole o altri sentimenti: solo il silenzio, solo l’accoglienza di quella ultima parola non-parola di Gesù, che accompagna l’umanità tutti i giorni, fino alla fine, fino a che vi sarà un uomo sulla terra.

(Meditazioni di Padre Serafino Tognetti )